La recensione del film in collaborazione con Badtaste.it –
Di Gabriele Niola
È una storia vera quella di Everest, ce lo ricordano all’inizio con i cartelli e ce lo ricorderanno alla fine con le consuete foto dei veri personaggi. Questo avviene perchè è una storia clamorosa e la sua aderenza effettiva alla realtà è parte del fascino, l’obbligo a crederci è parte di ciò che la rende incredibile. E di magia della realtà ne ha bisogno Everest, perchè altrimenti come storia di sola finzione non reggerebbe il ritmo e la pressione della concorrenza (il cinema di grandissimo incasso e tantissime star). Tarato sui grandi paesaggi e sulla ricostruzione digitale, il film di Baltasar Kormakur vuole muoversi nel crinale tra follia e ambizione, tra aspirazione, passione e desiderio di conquista, sfidare la morale del pubblico (che in linea di massima non può comprendere perchè rischiare in questo modo la vita ma ne può rimanere affascinato) mettendosi sempre dalla parte dei protagonisti e delle loro scelte difficili da condividere. L’avventura che sarebbe lecito immaginare vista la tematica in realtà occupa un posto marginale.
E forse la parte migliore del film è proprio quella della grande ricostruzione digitale in cui inserire attori reali, la maniera in cui piccoli uomini si battono contro grandi montagne, ripide lastre, terribili tempeste e tutto ciò che il corpo umano non è disposto a tollerare. Tuttavia in questo catastrofico classico (la sua natura è smascherata inevitabilmente dalla maniera in cui ogni personaggio è introdotto e caratterizzato per essere stereotipo) la tragedia sembra non essere frutto di un errore umano come siamo abituati a vedere, di un’arroganza o di imprudenza, semmai di una sete di conquista inappagabile, una che spinge tutti ad andare oltre quello che possono fare. Le decisioni meno condivisibili sono motivate dalla più indiscutibile delle pulsioni.
Everest, con grande sorpresa, sembra anche avere il coraggio di non rimpinzare lo spettatore di tensione, non vuole tenere nessuno sulla punta della poltrona ma mostrare un gruppo di esseri umani spingersi in un luogo che li respinge, mettere dei corpi in lento decadimento in un luogo del pianeta tra i meno ospitali in assoluto. Kormakur addirittura non si tira indietro di fronte alla possibilità di ironizzare alle loro spalle con gli strumenti del cinema, staccando in maniera netta e brutale dalle tormente di neve e i nasi congelati ai tiepidi salotti di città in cui “le rispettive” attendono i loro cari, coperte da sicuri maglioni e a piedi scalzi, tutto ben in evidenza. Ad interpretare questi ruoli marginali sono attrici dal nome che cozza con il minutaggio concessogli come Keira Knightley e Robin Wright.
Dunque Everest non entrerà mai tra i film di scalate fondamentali (la presenza del 3D, che evidentemente avrebbe potuto aiutare, non è mai sfruttata, in nessun momento in nessuna maniera, come non ci fosse), perchè della scalata non gli interessa nulla, come sia possibile arrivare in cima ad una montagna importa molto meno di cosa sia necessario sacrificare per avere la determinazione richiesta per affrontarla. Mostrando cosa si rischia, quanto male possano andare le cose (e prima di vederlo ci viene ripetuto più volte a parole) il film ci prepara ad un viaggio nell’irragionevolezza in mezzo a uomini che cercano qualcosa che paiono non trovare nemmeno quando conquistano la loro meta. Obiettivo di una futilità tale che, in un simile film, impressiona e colpisce. Se non altro.
Ecco le foto di Everest – il film di apertura della mostra del cinema, scattate da Eleonora Agostini.