Licenziamenti e profitti, salvataggi e respingimenti. La miccia infernale verso il 2017.

1666 è quasi un numero da satanisti. 1666 anime perse, licenziate in queste ore da Almaviva, si trovano già nell’inferno della disoccupazione. Senza paracadute, sempre a patto che quel poco raggranellato lavorando al call center potesse rappresentare per loro l’ancora di salvezza per una vita dignitosa.
[dropcap type=”1″]D[/dropcap]iabolica pure la sentenza emessa dalla Sezione lavoro della Cassazione, presieduta da Vincenzo Di Cerbo (anche Di Cerbero, mostro infernale, non stona), che stabilisce legittimo il licenziamento di un lavoratore se viene motivato dall’azienda con l’intento di realizzare ‘un’organizzazione più conveniente per un incremento del profitto’.

La sentenza stabilisce ufficialmente che i soldi, sterco del diavolo, non guardano in faccia a nessuno. Tranne che ai banchieri e ai truffaldini che vengono salvati dallo Stato con palate miliardarie, sottratte ai soliti poveri diavoli che pagano le tasse.
E intanto l’inferno del Montello, promesso in fiaccolata l’altra sera a Volpago, nel trevigiano, da un migliaio tra cittadini ed estremisti dall’anima nera ai profughi che dovrebbero alloggiare all’ex polveriera, è lava che cola su un terreno già incandescente.

Tutto si lega. La miccia che in questo fine anno mette in fila fatti e vicende, contingenti e di lungo periodo, conduce al 2017 con un potenziale esplosivo pieno di rabbia.

Tutto si lega perché tutto richiama a insicurezza, ingiustizia, disparità. Un tutt’uno che la politica ha cercato di esorcizzare, raccontando lo storytelling-bufala di un’Italia riformista e in cambiamento, oppure ha voluto strumentalizzare gettandovi ulteriore benzina populista.

Nessuno, se non col senno del poi o in maniera troppo timida, ha voluto affrontare o entrare nei tanti focolai infernali che oggi definiamo come ‘periferie’.

Una periferia che si sta allargando a macchia d’olio, più che di leopardo.
Le lettere di licenziamento spedite a grappolo diventano migliaia mine disseminate ovunque; le riforme e le sentenze hanno sempre meno il sapore dell’equità e sempre più un gusto padronale; i salvataggi alle banche non corrispondono alla tutela dei più deboli ma sono scudi protettivi per chi è già forte; gli appelli all’accoglienza di chi è cronicamente debole non possono che essere percepiti come messaggi provocatori nei confronti di chi, nel frattempo, è diventato socialmente ed economicamente debole. O ha la tremenda paura di diventarlo.

Da Flickr in CC / Radio Città del Capo

Se tutto si lega, l’unica possibile risposta non può che venire da una politica capace di vedere il tutto come un tutt’uno. E non in modo edulcorato o esasperato a seconda del tipo di speculazione da attuare. Ma ben sapendo che ogni segmento di questa miccia è saldamente collegato all’altro e che ogni singola azione produce effetti su tutto il resto del filo che porta all’innesco dell’esplosivo.

Il 2017 sarà un lasso che consentirà di ricordare e ripercorrere, a 40 anni di distanza, il 1977. Un anno che fu cruciale per il Paese, denso di violenze terribili, di tensioni sociali, di indiani metropolitani, di fantasia al potere e di ribellioni. Un anno nel quale gli esclusi, in forme e con conseguenze diverse, emersero dalla pancia del Paese.
Guardare al ’77 seppur lontano non sarà cosa inutile.

Evitare l’esplosione, guardare in faccia al reale e non drogarsi di narrazioni, è l’unico cambiamento sano, se ancora c’è una miccia di speranza, che è lecito attendersi dalla politica.

Testo di Stefano Ciancio, Editorialista di Positive Magazine

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