Ieri ho conosciuto Liuba. Per fortuna ho un figlio che attacca bottone con tutti. Il tempo di pagare il suo cono all’amarena e per un secondo lo perdo di vista: me lo ritrovo seduto sulla panchina esterna della gelateria, già impegnato nelle presentazioni, accanto a questa signora dal cappello color panna e dal vestito bianco a pois, come la stracciatella. Ai suoi piedi il carrello della spesa, bianco, dell’Alìper. Tra le mani una coppetta.
A occhio e croce Liuba è più vicina ai 70 che ai 60, ma non è sempre facile vedere un’età se non si conoscono le storie delle persone.
Tra una cucchiaiata di lei e i baffoni sempre più rosso sangue di lui resto in piedi ad osservarla. In punta di piedi entro nella sua storia di donna libera solo di domenica.
Mentre pulisce la bocca e le mani imbrattate di Piero racconta che “in Ucraina facevo la maestra. La mia pensione non vale niente, sono come i vostri 50 euro”. Come in una involontaria interrogazione a salti, passa da Putin alla guerra, dalla libertà alla corruzione nel suo Paese. “Sono in Italia da 11 anni, adesso sto sostituendo per qualche mese la persona che segue una signora con sindrome di Down, affidata dai fratelli e vivo con lei…”.
Penso al ‘dopo di noi’, cercando di immaginare le solitudini di chi accudisce e di chi cerca garanzie di accoglienza per un proprio caro.
Liuba è una delle tante donne che consente un reciproco patto privato di accoglienza e sostegno, al di là di ogni vuoto o carenza di garanzia che il pubblico dovrebbe dare.
Ci si arrangia, come si può. Ci si barcamena di sentimenti: “E’ una vita dura, però grazie agli italiani posso spedire a casa i soldi. Ho quattro figli e 10 nipoti, e ogni volta che torno a casa mi saltano addosso e me li stringo forte”.
Il gelato è finito. Liuba stringe Piero e lo bacia come per ripescare un po’ di amore lontano. Se ne va con il suo carrello sponsorizzato. Al centro c’è stampato un cuore verde. Spero di incontrarla ancora. Almeno per dirle che Liuba ha un solo significato e un solo nome in italiano: amore.