VENEZIA – Dal Nostro inviato Alice D’Este
Le riconosci (su facebook) perché tra il nome e il cognome, palesemente italiani hanno inserito il loro nome da musulmane.
Incontrandole, invece, il tratto distintivo al primo sguardo è il velo. Anche se non tutte lo portano sempre.
Le donne italiane convertite all’islam sono tante. E la loro non è una vita facile. Sono divise tra la cultura che hanno abbracciato per scelta e quella in cui sono cresciute. Ma che spesso però, dopo la «shahada», (la professione di fede in cui si dichiara che non esiste altro Dio al di fuori di Allah) le abbandona. Ci sono amici (pochi) che restano, altri (molti) che vanno. Famiglie che tolgono il saluto altre che fingono di non sapere, di non capire. E loro, donne prima e musulmane poi, si difendono. Ognuna col carattere che ha. Silvia e Gaia sono così. Una forte e l’altra mite. Una verbalmente (e non solo) bellicosa, l’altra schiva. Ma entrambe hanno cambiato la loro vita, dopo aver incontrato la religione.
«Mi è sempre interessata fin da adolescente, ho letto molti testi sacri durante la mia formazione – dice Silvia Layla Olivetti – ma ho abbracciato la religione dopo averci pensato per molto tempo. La mia vita a quel punto è cambiata in modo profondo. Non ero serena, ora lo sono». Silvia Layla ha vissuto al Lido e studiato a Venezia, in uno dei licei più frequentati del centro storico. Poi la conversione. Oggi è sposata con Mido, un egiziano che vive con lei a Marghera («sia chiaro – dice lei – mi sono convertita prima, non per amore»). Hanno due bambini che frequentano le elementari e una bimba piccola. Silvia però oggi nella «sua» Marghera a volte sta male. Gli sguardi attraversano il velo, quando passa per strada. Le persone la guardano con timore, «tornate a casa vostra», le sussurrano. «Se sapessero che sono veneziana forse eviterebbero – dice lei – non c’è vera libertà, qui. Portare il velo è difficile». Silvia parla dello Hijab, ovviamente, quello che lascia il volto scoperto e i tratti riconoscibili.
E Gaia, 27 anni, convertita da due, è la prima a confermarlo. «Il velo? No, io al lavoro non lo metto – dice – non potrei, mi licenzierebbero».
Dove lavora Gaia c’è un look preciso da rispettare: vestiti neri, capelli raccolti, un filo di trucco. «Che posso farci? – dice lei con gli occhi blu che risaltano incorniciati dal velo – è così. Molti amici non considerano reale nemmeno il mio matrimonio». Anche Gaia è sposata, secondo la religione musulmana. Ma non secondo le leggi italiane. Secondo i suoi genitori convive, secondo alcuni amici ha un ragazzo.
«Viviamo una distonia – dice Gaia – tra quello che sentiamo e quello che viene riconosciuto e accettato». Forse. Ma anche Silvia e Gaia sono diverse tra loro. Anche per loro non c’è una sola lettura della realtà. Gaia fatica a portare il velo non solo al lavoro, anche per strada. «Non riesco ancora a reggere gli sguardi di disapprovazione – dice – in realtà non me la sento». «Ci vuole tempo – dice Silvia – anche io ho fatto un percorso lungo ma fa parte dei precetti». Loro due chiacchierano. Arriva T., il figlio di Silvia. Ha sette anni e si annoia ad aspettarle.
«Stai attento a tua sorella – dice Silvia – se cade e si fa male mi sa che è meglio che ti arrampichi sullo scivolo e non scendi più».
Lui ride, e corre dalla piccola. Musulmane o no le mamme sono tutte uguali.
Fotografie di Alice D’Este