ELEZIONI AMMINISTRATIVE 2016
“Quando non lavoro, faccio il sindaco: tutti i giorni passo in ufficio prima di andare a casa e rispondo alle telefonate. Il venerdì mi prendo ferie oppure ore di permesso per ricevere in Municipio. Non ho alcun filtro di alcuna segreteria. Poi c’è il sabato. E c’è anche la domenica, se necessario. Prendo 410 euro al mese.
Ho le stesse responsabilità di un sindaco di una grande città: se firmo una cosa sbagliata vado in rogne e pago. Rappresento poco più di 2.000 abitanti: le spese di rappresentanza all’anno, per tutto il Comune, sono di 82 euro. E così, alle volte, capita che prima alzo le braccia al cielo e poi le abbasso per tirare fuori i soldi di tasca mia…”.
Il tritacarne di numeri, percentuali, tabelle excel e cartine geografiche che si è messo in moto in questi giorni di post-voto per le elezioni Amministrative è impressionante. Ogni lettura ha una valenza nazionale: vale solo quanto è accaduto e potrà accadere nelle 4-5 grandi città chiamate alle urne. Gli altri capoluoghi diventano buoni per rafforzare, dati alla mano, tutto un ventaglio di teorie. Dal fallimento di Renzi e del PD che sprofondano, anche rispetto alla gestione Bersani, fino al finto successo dei 5 Stelle che perdono rispetto alle Europee o alle Politiche del 2013. Dal centrodestra che è miracolosamente competitivo solo se si unisce, fino a Verdini che nuoce al centrosinistra. E poi la sinistra che se guardi Zedda a Cagliari è indispensabile al centrosinistra. Anche se ovunque i suoi candidati non vanno oltre il 5%.
A livello politico, più che il sostenere le ragioni dell’abbiamo vinto è il dimostrare il flop dati PDdell’altro che è diventato ormai il miglior biglietto da visita, sempre nazionale, della stessa campagna elettorale che ora prosegue con i ballottaggi. Ora si prosegue, tra Olimpiadi di Roma, l’uomo dell’Expo che cerca di vincere un rush finale che sembrava agevole e le sfide a due, dalle quali trarre indicazioni in proiezione delle Politiche e persino del referendum costituzionale. Nel tritacarne dei numeri e delle analisi, tutti richiamano tutti alla realtà. Ma ad essere dimenticata è proprio la realtà dei Comuni, ognuno con i suoi problemi, dinamiche, persone e primi cittadini in carne ed ossa. In questi giorni l’Italia è falsamente diventata un unico, grande Comune.
Al volo, nel corso di questi giorni di dopo-voto, mi sono trovato improvvisamente a scambiare due parole sulle elezioni con un sindaco. Uno dei 7.999 sindaci d’Italia, tanti quanti sono i nostri Comuni, commissariamento più-commissariamento meno. Il suo paese si trova in provincia di Padova e ha un nome che richiama ad una famosa storia di esilio: Sant’Elena. In fin dei conti, il destino di moltissimi di questi primi cittadini è proprio questo: soli o quasi soli al comando, ma non per scelta iper-leaderistica. Il dettaglio sul suo colore politico è insignificante: in giro dicono che sia bravo. Le sue parole, come quelle di tanti altri sindaci, sanno di fatica. In molti vanno avanti a tirare la carretta. Non tutti, dopo un primo giro, se la sentono di continuare a sacrificare tempo e famiglia. Qualcuno finisce sfiduciato, qualcun altro finisce in manette e nel tritacarne delle polemiche nazionali tra chi ha più o meno sindaci dalle mani pulite o sporche.
Il tritacarne di cifre ed analisi declinate con logiche da alte sfere nazionali è un gioco comodo. Peraltro parziale, nel mare magnum di situazioni, schemi, alleanze talmente diverse che costringe a mettere assieme capre e cavoli. Ma è soprattutto un’ipocrisia che nasconde un abbandono, una lontananza siderale della politica dalla realtà delle amministrazioni locali.
Quale politica oggi seleziona, forma, monitora e sostiene seriamente queste donne e questi uomini?
Nel PD, le dirigenze, i circoli e gli iscritti locali rappresentano sempre più e solamente loro stessi, con le loro guerre intestine, e non hanno più le antenne per percepire umori ed esigenze dei territori. Per essere popolari, insomma. Quando proprio sono allo sfacelo, come nel caso di Napoli, scatta il commissariamento.
I 5 Stelle mandano nelle vetrine web candidati da cliccare, scelti da pochi e con criteri che certamente non garantiscono affidabilità, competenza ed esperienza. E alle volte, dopo averli eletti, li mandano pure a casa o li disconoscono. Salvini predica e promette sicurezza e guerre sante contro gli immigrati, ma poi chi se ne frega se i suoi devono fare i conti con la quotidianità dell’amministrare.
Oltre agli elettori che si allontanano dalla politica, anche lo stesso esercito degli aspiranti sindaci si assottiglia: a forza di castigare i Comuni con spending review, patti di stabilità e ossessive battaglie populiste contro ogni costo della politica, chi mai sarà, in un futuro non lontano, ancora disponibile (salvo quelli che hanno disponibilità ed interessi che vanno molto più in là del nobile servizio pubblico) a votarsi ad un martirio che toglie tempo, risorse e richiede grosse responsabilità? Ed è sufficiente questo per ritenerli all’altezza del compito?
Dietro i numeri delle amministrative, usati come ordinata lettura nazionale, c’è l’anarchia di un intero sistema politico che ruota attorno agli amministratori locali. Un po’ come quello spazzino che “quel giorno che si è messo a nevicare al mio paese, si rifiutò di uscire per strada. Ho preso il trattore e mi sono messo a spalare”, mi dice il sindaco. Ci salutiamo. Gli chiedo al volo se è al primo o al secondo mandato. Lui, allontanandosi, mi risponde con due dita che assomigliano ad una V di vittoria e con una faccia che parla di un’impresa faticosa.
Sono queste le realtà, di ogni dimensione, con le quali la politica dovrebbe tornare a fare i conti.