Quando Guadagnino ha annunciato il remake di Suspiria era difficile prevederne gli esiti: come si sarebbe conciliato il suo sguardo, celebrato ovunque per il delicatissimo Call me by your name, con una delle pietre miliari del cinema horror? Molti dei fan del genere – nonché la figlia di Argento – lo ritenevano un atto di vanità senza scusanti. Eppure il regista palermitano aveva dichiarato che la sua era quasi una “dichiarazione d’amore” nei confronti del collega che lo aveva preceduto.
A chi si aspetta di ritrovare sullo schermo il Suspiria degli anni Settanta, c’è da dire immediatamente che si ritroverà deluso: il film di Guadagnino echeggia e prende a piene mani – ovviamente – dall’originale, ma ne fornisce una versione molto autoriale.
Per Dario Argento l’horror è una questione interiore ed il remake ha una visceralità certamente meno marcata dell’originale – come testimoniato dalle scelte cromatiche varate sulla scala del verde e del marrone, contrariamente alla versione originale che vantava allucinazioni purpuree.
Se cromaticamente ritroviamo una celebrazione al cinema del passato; ritmicamente la narrazione si spezza in atti e, procedendo verso il finale, si fa quasi sincopata. Bellissima l’interpretazione delle visioni che si danno in frame fotografici estremamente raffinati e contemporanei.
Il film trova il proprio equilibrio tra l’eco al cinema precedente – citato tra tutti dal regista il multitalentuoso Fassbinder “uno dei più grandi cineasti” – e modernità; ma soprattutto trova il proprio equilibrio tra una costruzione estetica raffinata ed il pulp.
La narrazione si divide tra la Berlino degli anni Settanta – a riguardo il regista dice: “A noi piaceva l’idea di rimanere in Germania […] la Berlino divisa dal muro era forte rispetto al concetto di inclusione, esclusione, scontro generazionale, colpa e memoria” – e la scuola di danza, ricreata all’interno dell’albergo di Campo dei Fiori a Varese -: è proprio tra queste mura che orrore ed inconscio vengono sguinzagliati. La dimensione psicanalitica ha un ruolo importantissimo nella narrazione e viene rappresentata dal dottor Klemperer (Lutz Ebersdorf) in realtà Tilda Swinton, proprio a quest’ultima va la parte di Madame Blanc algida direttrice della scuola di danza, un ruolo che interpreta magistralmente, ça va sans dire.
E se la dimensione psicanalitica è protagonista nell’horror a tinte verdognole di Guadagnino, altrettanto vitale si dimostra l’interpretazione delle donne, i cui corpi – e ruoli – si caricano di poteri soprannaturali grazie ai passi di danza ispirati a Mary Wigman: nell’eseguire le coreografie – di Damien Jalet – le danzatrici perdono sé e si ritrovano all’interno di una dimensione collettiva, il momentum si raggiunge proprio nell’uccisione della madre ed assunzione del suo ruolo.
Alla brillante recitazione degli attori, nel ruolo di protagonista Dakota Johnson, si aggiunge la collaborazione con Thom Yorke che aggiunge al film ulteriore dinamismo con la sua composizione musicale poliedrica – dalle melodie voce e piano alla sperimentazione ritmica -.
Il film di Guadagnino è carico di spunti storici, culturali, filmici ed il tutto si amalgama sapientemente in un bellissimo incubo verdastro.
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